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Vini Valle d'Aosta
Vini Perduti

I vins perdus del mondo enologico valdostano

Scopri quali sono i vini perduti della nostra viticoltura.

Carissimi amici trèinadàn (buon anno in patois) a tutti! Mi immagino e mi auguro che, al veglione, le bottiglie del nostro beneamato vino valdostano siano state stappate in abbondanza e varietà e allora, proprio per celebrarne la grande varietà attraverso la storia, vorrei narrarvi in questa puntata dei vins perdus del vino valdostano. Il vino valdostano ha, infatti, un passato talmente antico e complesso che alcuni suoi vini si sono estinti, persi nelle pieghe della storia e sono oramai relegati ad ancestrale ricordo della grandeur dei nostri trascorsi enologici. Spero personalmente che siano solo quiescenti, in attesa di un loro auspicabile risveglio come già successo per il Clairet di cui parleremo più avanti. Inizierei dai vins perdus speziati in quanto tipicamente usati durante le festività di fine anno.

Vins épicés

Il vin épicé fatto con vino, spezie e zucchero/miele ha una storia millenaria in Vallée se pensiamo che i monaci cluniacensi di Sarre già lo producevano nello XI secolo: “L’évêque Boson…vers 1094, appréciant leurs bienfaits, et voyant les rangs de son clergé séculier dégarnis, il confia le service de l’église de Sainte-Hélène au prieur de Saint-Victor de Genève…En signe d’obéissance les moines de Sainte-Hélène s’engagèrent à fournir annuellement …un setier de vin épicé pour le repas commun des chanoines de la Cathédrale”. Prendiamo ora in rassegna i tre più antichi vini speziati della tradizione valdostana.

Claretum

Considerato che sono trascorse da poco le festività natalizie, inizierei il racconto dei vins perdus valdostani con un antichissimo e raffinato vin épicé che allietava proprio, nell’antica tradizione valdostana, tali festività. I computa Sancti Ursi, registri contabili della collegiata di Sant’Orso relativi alle annualità tra il 1486 ed il 1510 riportati dallo storico Orfeo Zanolli, ci restituiscono varie ricette del claretum in voga durante la reggenza della Collegiata da parte del grande nobile Giorgio di Challant. Il claretum (che non coincideva con il Clairet, altro antichissimo vin perdu valdostano) era un vino aromatizzato che poteva assimilarsi al moderno vino chinato. Il claretum prevedeva l’uso, oltre che di vino prevalentemente rosso, di miele e di un numero davvero importante di spezie ad evidenza di come il medioevo valdostano abbia saputo esprimere una cultura enogastronomica di raffinata complessità. A seconda delle diverse ricette presenti nei computa sono riportati alternativamente cannella, cardamomo, pepe, zenzero, chiodi di garofano, noce moscata e zafferano. I computa riportano anche l’uso di una spezia quasi scomparsa: il grain du paradis o melengueta, tra le poche spezie africane. La ricetta di questo vino è stata attualmente ripresa (ma non so in quali termini) e commercializzata da due benemerite produttrici della bassa valle.

Nectar

Sempre i computa Sancti Ursi riportano di un secondo tipo di vin épicé utilizzato dai canonici: il nectar detto anche vinum pimentatum. Il Nectar era sostanzialmente il fratello meno elaborato del Claretum consistendo in vino, pepe e miele.

Ypocras.

Gli stessi computa sancti Ursi riportano, ancora, dell’utilizzo in Vallée di un ulteriore tonico non troppo dissimile dal Claretum: lo Ypocras costituito da vino, limone, zucchero, cannella, succo di arancia, chiodi di garofano, pepe, coriandolo e latte.

Vin au quina

Questa antichissima tradizione di vini aromatizzati, ora famosa grazie al Barolo chinato, trovò proseliti in Vallée ad inizio Novecento quando Louis Napoléon Bich, nel 1906, iniziò a produrre a Verrayes un vin au quina: “ce vin est confectionné avec un mélange de raisins de muscat blancs et rouges et de picot tendre pressés a peine récoltés auquel est additionné une solution de quina”.

Vins perdus

Anche tra i vini valdostani propriamente detti molti sono gli antichi nettari oramai sconosciuti a tutti. Passiamo anche loro in rivista per riscoprire la grandeur di questo passato.

Vins Vermeil e Soret

Il pregevole testo manoscritto del XV secolo Le Misthère de Saint Bernard de Menthon fa menzione di un oste valdostano di Saint-Rhemy che commercializzava vino valdostano“vermeil et soret”. In riferimento alla prima tipologia di vino offerta dall’oste, numerose cronache testimoniano della diffusione in tale epoca nell’area francofona dei vins vermeil.  Cronache di omaggi al Duc de Savoye risalenti al 1461 citano di omaggi di “deux demi tonneaux de vin vermeil, un demi tonneau de vin clairet, un demi tonneau de vin blanc”. Nella Agriculture et la maison rustique del 1586 se ne descrive la probabile tecnica di vinificazione: “on laisra les raisins foulés bouillir et cuver par l’espace de vingt quattre heures, plus ou moins, selon que l’on voudra estre le vin : car le plus cuvé est plus gros, vermeil et puissant, le moins cuvé est plus subtil et delicat”. Dioscoride lo identifica in un vino “moyen de coleur entre le blanc et le noir” a indicare colorazioni tra il rosato ed il rosso rubino. In Borgogna, antica area di influenza del vino valdostano, i vins vermeil erano anticamente i vini più diffusi, con colorazioni tendenti al rosso rubino. Nel sud della Francia, nell’area di Cabrières, ancor oggi si produce un “vin vermeil” già citato nel 1357 e di colorazione rosata. Altro vino commercializzato dall’oste di Saint-Rhémy era poi il vin soret o sauret/souret. Tale tipologia, secondo Thomas Hohnerlein-Buchinger, corrispondeva ad un vino di colore giallastro, bruno chiaro. Il Dictionnaire étymologique de la langue françoise di Gilles Ménage del 1750 riferisce invece che il termine soret corrisponde ad un “diminutif de l’Italien Sauro, est une couleur roussâtre” ad identificare un vino di colorazione tenue ma comunque rossastra.

Vin “gris”, “bastart”, “rosette” ed “ozar”

Il manoscritto Règles pour obtenir une bonne santé; consignes pour une alimentation correcte; vertus des aliments et des boissons; préceptes pour vivre sains et vigoureux, redatto verso la metà del XVI secolo probabilmente dal curato di Charvensod e riscoperto da Anselme Pession, dà menzione di ulteriori antichi vini valdostani denominati gris, vin bastart, rosette ed ozar. In riferimento al primo vino citato (il vin gris), Francesco Alberti Di Villanuova evidenzia che “on appelle vin gris un vin fort paillet” riferendosi probabilmente ad una produzione locale di vini bianchi. Il vino valdostano denominato bastart o bastard era invece un “vin mêlé d’eau”. La rosette era probabilmente un rosato considerato che la rosette de Genève, antico vino dell’area svizzera romanda prossima alla Valle d’Aosta, era un apprezzato vino rosato e che, in epoca medioevale, i vins rosset erano vini dal colore rosato. Incerta appare infine, ad oggi, la tipologia dei vini valdostani ozar.

Vinum malvaticum/malvaysie.

Negli antichi comptes de l’Hospice du Grand-Saint-Bernard relativi all’anno 1473, viene riportato di un approvigionamento di vino valdostano denominato malvaticum. Il ricercatore greco Basilio Logothetis ricorda come il nome antico dei vini bianchi europei vinificati in passito secondo lo stile in voga all’epoca in Grecia nella zona del porto di Monembasia fosse stato oggetto di “progressiva alterazione del nome passando da Vino di Monembasia, a Monobasia, Malvasia, Malfasia, Malfatico fino al termine malfaticum”. In area francofona il vinum malfaticum venne ulteriormente corrotto, in epoca medioevale, in vinum malvaticum e poi contratto in malvaticum come da conti dello Hospice a conferma del fatto che in Vallée si appassivano le uve già nel 1473! La seconda menzione di tale tipologia di vino appare invece, in Vallée, sotto il termine di malvaysie nel già citato Régime briefz del XVI secolo, conservato presso gli archivi della chiesa di Charvensod. Un famoso grand cru valdostano di Malvoisie si trova da tempi immemori a Nus anche se appare ad oggi difficile associarlo al malvaticum sebbene in tale direzione vada il fatto che la malvoisie de Nus è passita esattamente come gli antichi malvaticum.

Forchà/Forcé/Forzato/Rinforzato

Il canonico Edouard Bérard, a fine Ottocento, descrive con estrema precisione la fabbricazione di alcuni “vini di lusso” valdostani: “l’uva come abbiamo detto si lascia appassire per due o tre mesi, e si preme al torchio, si lascia quindi depositare alcuni dì in tini aperti e quindi si rinserra in botti ben cerchiate e chiuse e non si spilla che dopo 3 o 4 mesi. Tale vino dicesi forzato”.

“Forzato”/“Rinforzato”/ “Forchà” è un ulteriore etimo scomparso dal moderno vocabolario enologico rimanendone l’eco solo nello Sfursat, vino passito rosso valtellinese, ed in Liguria dove “rinforzato” è sinonimo del passito bianco Sciacchetrà a evidenziare l’esistenza, in passato, di un lessico e di una tecnologia enoica comune alle Alpi e prealpi italiane. Il poeta patoisan Desiré Lucat menziona e loda tale tipologia ad inizio Novecento nel componimento la veunendze: “E lo moscat, perque pas lo nommé? Forcha l’y at gneun vun que lo passe”. Ignazio Lomeni dettaglia nel 1845 una tecnica di vinificazione prossima a quella utilizzata per la produzione dei vini forzati. Lomeni chiarisce che questa “costrizione” dei contenitori permette una maggiore concentrazione dei vini: “gli acini così pigiati verranno deposti in un barile, il cui cocchiume dovrà avere da 3 a 4 pollici di diametro. Il barile dovrà esser pieno a due terzi almeno, ma non di più di tre quarti… Il cocchiume dovrà esser messo a posto, e serrato, ma dovrà avere un piccol buco per dare escita al gas; questo buco riceverà un piccolo cavicchio abbastanza sottile per entrarvi liberamente. Con questo mezzo il gas potrà escire senza che l’aria possa entrarvi. Si lascierà stare il vino sino a che non siavi più fermentazione sensìbile. Non si otterrebbe alcun vantaggio nell’oltrepassare questo punto. Il vino verrà allora ritirato, e posto in un altro barile; si torchieranno i vinacci, e si unirà il vino ottenuto al primo, cui darà della forza e del colore ; poiché il vino di torchio, quando i vinacci non sieno stati alterati dall’aria, è sempre più alcoolico del vino spillato…”. Ulteriore seducente ipotesi è quella che il Forchà fosse un vino spumante ante litteram considerato che in Alta Savoia con il termine forcé si intendevano proprio i vini spumanti di Muscat fatti esattamente con la procedura sopra descritta che permetteva, grazie alle spesse botti rinforzate ed al piccolo sfiato, di mettere in parziale pressione i vini gasandoli naturalmente senza il rischio di rompere le doghe.

Denominazioni perdute

A chiusura di questa sezione informo che non solo le tipologie di vini ma anche le loro antiche denominazioni spesso sono andate perdute. Cito ad esempio una antica e vasta denominazione di vigne site di fronte ad Aosta che nella Vallis et civitatis Augustae compendiaria descriptio, manoscritto valdostano del XVII secolo,  veniva descritta come multique vini ferax vulgo dictus la colline de l’envers. E’ facile riconoscere la colline de l’envers nel territorio delle vigne di Charvensod, Gressan, Jovencan, Aymavilles e Villeneuve ora ricomprese nella denominazione Torrette ma, come riporta il Gatta nel suo saggio, con vitigni e relative percentuali totalmente diversi da quelli dell’attuale denominazione che vede prevalere il petit Rouge. Queste disposizioni hanno costretto i vignerons di queste zone ad un forte lavoro di reimpianto delle vigne e dei vitigni scombinando in parte la tradizione viticola storica dell’envers.

I vins perdus “risvegliati”

Reputo personalmente (e ne ho scritto molto in passato) che il nostro migliore passato possa tornare ad essere il nostro migliore presente e futuro. E almeno una volta, a mio conforto, questa supposizione è diventata realtà. E’ oramai passato un decennio da quando proposi ad uno sparuto gruppo di appassionati vignerons encaveurs di riunirci a casa dell’attuale presidente del Consorzio vini per discutere sulla possibilità di riportare in vita quello che consideravo essere il più importante vin perdu della storia valdostana. Oggi, a due lustri da quella serata e da quelle successive, questo antico e prestigioso vino è risorto grazie al grande coraggio di questi eroici vignerons nel raccogliere il flambeau della tradizione riproponendo questo grandissimo ed antichissimo vino valdostano: il Clairet. Questo prestigioso vino, appena rinato, ha già ricevuto prestigiosi premi e importanti valutazioni dai più importanti esperti di settore. Ripercorriamone i passati fasti.

Clairetz, Clairets, Chiaretti, Chiarelli

Questo genere di vino compare molto presto nella cultura enoica valdostana assommando, a conferma del suo grande pregio, il più alto numero di antiche citazioni fra i vini rossi valdostani di eccellenza. Già nel 1494, secondo cronache locali riportate dal Passerin d’Entrèves, il Clairet è servito, presso il castello di Issogne, al re di Francia Carlo VIII in occasione di una pantagruelica cena organizzata da Giorgio di Challant che vide presenti anche il conte Filiberto di Savoia ed il barone di Vallaise: “Ad ogni nuova portata le coppe si riempivano dei vini più rinomati della valle… il delizioso Clairet di Chambave, il passito rinomato degno di figurare sulla tavola di un Re, veniva versato in grandi calici di vetro di Murano, con sopra cesellato lo stemma Challant”.  Il manoscritto di Charvensod di cui già abbiamo parlato e denominato Règles pour obtenir une bonne santé; consignes pour une alimentation correcte; vertus des aliments et des boissons; préceptes pour vivre sains et vigoureux, redatto verso la metà del XVI secolo, dà ulteriore menzione di vini “clairet”. La terza citazione in ordine di tempo del Clairet è riferibile ad un alto prelato, il prevosto dell’“Hospice” del Gran San Bernardo, Roland Viot, che nel 1624 descrivendo la produzione enologica valdostana evoca i vini “clairetz”  precisandone lo stile di vinificazione con appassimento “sur paille”: “Le pays d’Aouste est situé en une asses commode contrée et qui a suffisament de tot ce qui est nécessaire pour la vie humaine: bon vins…clairetz qu’on dit de la paille...”. La produzione di questo antico vino rosso secco, fatto con uve passite di Nebbiolo e Neret, comportava una ben precisa e raffinata tecnica vinificatoria. Ricorda il Gatta: “il nebbiolo è un’uva, che quando è ben matura contiene in se tutti gli elementi di un buon vino, ma qualche volta lo produce un po’ aspro e duro; ed in tal caso esso fa buona lega col neretto, ma questo non deve sorpassare una quarta od una terza parte, altrimenti il vino perde la forza e la durevolezza”. L’aggiunta di Neret’al prezioso Nebbiolo aveva un ben preciso significato enologico. Al Nebbiolo, ricorda il Gatta, veniva aggiunto “un po’ di neretto che lo rammorbidisca”. Il Clairet, malgrado questo passato di assoluta eccellenza e dalle caratteristiche enologiche che lo rendono assolutamente attuale, è stato lungamente derubricato dalla cultura enoica valdostana. Le ultime citazioni di sua produzione rimontano ad inizio novecento. All’origine della scomparsa di questo grandissimo vino contribuì probabilmente, nel disagiato periodo tra le due guerre, l’alto costo della sua tecnica di lavorazione oltre all’estrema rarefazione, a fine ottocento durante l’invasione fillosserica, del Neret e del Nebbiolo Picotendro in centro Valle (Picot tendre come lo chiamavano nella plaine d’Aoste).

Conclusioni.

Se la sconfinata passione dei vignerons valdostani per le loro vigne si è tradotta in decine di varietà autoctone, meno noto è il fatto che anche in cantina la fantasia dei nostri ancêtres ha generato decine di vini assolutamente originali. Salutandovi ed augurandovi un felice anno nuovo, vi invito a riflettere sulle potenzialità inespresse della nostra enologia di fronte ad un bicchiere del rinato Clairet o sorseggiando un non meno interessante e digestivo Claretum.

Aosta 30 dicembre 2023
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