Il Vino alla Fiera di Sant'Orso
Secondo appuntamento con Rudy Sandi che ci parla della Millenaria Fiera di Sant'Orso e come il mondo del vino ne ha animato le giornate.
Cari appassionati di vino valdostano, eccomi di ritorno a raccontarvi qualche piccola, piccolissima storia sulla grande, grandissima cultura enoica valdostana. Innanzitutto, visto che mi state ancora leggendo, un sentito GRAZIE per essere sopravvissuti al mio chilometrico primo articolo. Cercherò, se mi riesce, di essere meno prolisso nei miei prossimi interventi.
La lettura di questo articolo collimerà, per molti di voi, con i giorni della plurimillenaria fiera di Sant’Orso. E allora, se me lo consentite, vorrei invitarvi a prendere assieme la macchina del tempo per un breve viaggio nel passato tra le vie della fiera. Ci aspetta il mondo del vino che animava i giorni di Sant’Orso. Un mondo, quello del vino ai tempi della fiera, fatto di santi, peccatori e di chi ci stava fieramente in mezzo.
Per curiosità personale inizierei dai peccatori, in particolare, ça va sans dire in tempo di fiera, da quelli che Dante collocava al terzo cerchio dell’inferno e che, secondo Tommaso D’Aquino, commettevano il gravissimo peccato di eccedere “la giusta misura nel dedicarsi ai piaceri del cibo e delle bevande”.
Per par condicio vi racconterò qualcosa su chi indulgeva in entrambi i peccati/piaceri narrandovi le imperiture gesta dei due più famosi “marchands de vin” che, nei giorni di fiera di metà milleottocento, si contendevano i clienti lungo la strada principale della fiera: via Porta de Sancti Ursi/Porte de la trinité ora via Porta pretoria. Il percorso della fiera partiva dalle porte ed arrivava fino al cosiddetto “pré de la foire” oggi piazza dell’arco d’Augusto. I nostri due locandieri si fronteggiavano agli opposti della via: uno presidiava il pré de la foire e l’altro Porte de la Trinité. Sul lato sud del pré, dove ora si trova la cittadella dei giovani, incontriamo la nostra prima locanda e relativa prima locandiera: la “mitologica” mère Bordeaux, finemente tratteggiata da Charles Fréderic Zumstein. Se Fabrizio de André l’avesse conosciuta le avrebbe sicuramente dedicato una canzone.
La sua cantina era, ad inizio ottocento, il rifugio di tutti i valdostani “diversi”. La mère era la santa patrona di artisti, poeti, viandanti, ribelli, derelitti e, insomma, di tutti gli emarginati che non accettavano la società perbenista o che da essa erano stati allontanati. Chiunque affrontasse la sua esperienza umana in modo diverso da quello imposto dalla società o chi cercava la felicità dentro ad un bicchiere di vino era ben accetto alla locanda della mère e del suo fedele nano servitore. La mère gestiva, nei giorni della fiera, un restaurant en plein vent: une vaste table toujours couverte d’andouilles, de cervelas, de saucisses, du lard friand, des patates frites. La sua locanda rivendita di vino ospitava decisamente il popolo piu variegato della fiera: les conducteurs d’ours, de singes et de chiens dansants, les animaux compris de tous les estropiés, rachitiques et autres nomades que nous envoie le roulage à l’occasion de la foire a cui la mère étendait l’hospitalité la plus familière.
La cantina dove si serviva il vino era dans une vaste et caverneuse étable où la mère Bordeaux a la chute du jour attendait ses hôtes étrangers qui prenaient place à ces tables enfumées. In questa fumosa stamberga il fedele inserviente nano della mère distribuait les vins tandis que sa maitresse couvrait la table de viandes suspectes. Le veillà di Sant’Orso dalla mère Bordeaux si trasformavano inevitabilmente in sfrenati riti bacchici in cui queste improvvisate corti dei miracoli mangeaient, buvaient, criaient jusqu’à que, vaincus par la fatigue et suffoqués par les vapeurs bachiques, ils tombaient sur la paille.
Dalla parte opposta della fiera, presso le Portes de la trinité troviamo, invece, la ben più intimista, riservata ma non meno interessante figura di un altro famoso “marchand de vin”: Jean de la Vigne, proprietario di un “détail en vin et en eau de vie” la cui qualità era orgogliosamente ostentata sull’insegna della locanda: “Jean de la Vigne – Quel bon vin!”. Jean è un personaggio affascinante, indissolubilmente legato a quel piccolo mondo antico che era la Vallée di primo ottocento. Apprezzato marchand de vin de la colline d’Aoste, in particolare del grand cru di Collignon, ospitava i suoi clienti in quella che era acclamata come la plus vieille cantine d’Aoste. Jean celebrava Bacco in maniera decisamente più misurata della Mère, spillando il suo famoso vin de Collignon a lume di candela.
Chi frequentava le veillà della fiera nella sua locanda veniva inebriato non solo dal raffinato aroma del suo vino ma anche, riportano le antiche cronache, da quello delle famose lampade ad olio di noce della locanda. All’improvviso tutta la raffinata ritualità e gestualità che Jean coltivava come un privilegio vennero di colpo totalmente stravolte: arrivano la ferrovia e la corrente elettrica. Dai treni merci arrivano ad Aosta fiumi di vino scadente ma a basso costo e le buie cantine delle locande valdostane, d’improvviso, vengono illuminate a giorno. La locanda Jean de la vigne di colpo diventa, rispetto ai nuovi locali con impianti elettrici, démodée mentre il suo pregiato vin de Collignon diventa “ordinairement cher” rispetto al vinello “del treno”. Jean entra in una profonda crisi: non intende adeguarsi ai tempi perché non riesce e non vuole riconoscersi in questo abbagliante mondo moderno in cui tutta la magia “antica” di quello che i cronisti dell’epoca battezzavano l’ancien temple de Jean de la Vigne gli pare irrimediabilmente persa. Confida ad un amico la sua angoscia di sentirsi victime du progrès et des innovations modernes e decide di farla finita: se précipitait d’un air égaré dans le Buthyer. Dopo una vita passata nel vino il povero Jean trova, per la legge del contrappasso, la sua fine in acqua.
Derubricati i peccatori passiamo, ora, ai Santi, anzi, al Santo per eccellenza della fiera: Sant’Orso.
Recita, a proposito del Presule valdostano, la Vita beati ursi de Augusta civitate, testo agiografico dello VIII secolo: “Piantò di propria mano una vigna e con le sue mani la lavorava. Chiunque fosse assalito da problematiche gravi se beveva il vino della sua vigna con fede sicura, se ne andava guarito con l'aiuto di Cristo”. Sant’Orso vinificava un vino non solo dai potenti poteri taumaturgici, capace di curare le malattie del corpo, ma, anche, dagli ancor più potenti poteri demiurgici poichè curativo dei malanni dello spirito.
Un antico testo della collegiata di Sant’Orso narra di un campagnard che, posseduto da un’intera orda di demoni, si presentò al cospetto della Collegiata dei Santi Pietro e Orso imprecando Dio e sfidando gli alti prelati valdostani. I canonici del capitolo di Sant’Orso, spesi inutilmente gli esorcismi di rito, decisero di usare lo strumento spirituale più potente a loro disposizione: le vin béni de Saint Ours. Il resoconto dell’esorcismo ci rende edotti dello straordinario potere curativo del vino del Santo: on lui fit boire du vin béni a l’honneur de Saint Ours, mais avec une peine extraordinaire, car les démons faisaient tout ce qui pouvaient pour l’empêcher. Bu le vin de Saint Ours les démons furent contraints de sortir de son corps.
Cari amici spero di avervi dato qualche spunto di riflessione per animare i vostri racconti notturni nelle future veillà e vi saluto con una certa fretta: un giro alla fiera mi attende.