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Vini Valle d'Aosta
Il vino valdostano

La rinascita del vino valdostano

Terzo appuntamento con Rudy Sandi che ci racconta l'altalenante storia del vino valdostano: dalle crisi dovute ai cambiamenti cimatici, le criticità legate a guerre e commerci, fino alla lenta rinascita.

Premessa

Cari amici eccoci nuovamente a discorrere del grande, grandissimo vino valdostano dopo una pausa dovuta ad alcuni avvicendamenti nel Consorzio (colgo l’occasione per salutare il nuovo Presidente Vincent Grosjean e quello uscente Stefano DiFrancesco). E proprio questa piccola, trascurabile pausa mi ha rammentato ben altra pausa che ha connotato, anzi stravolto la storia del nostro buon vino. Vorrei, pertanto, provare a narrarvi dei 150 anni in cui il vino valdostano diventò una sorta di “smemorato di Collegno” senza storia e senza memoria che non si ricordava più chi era… Di questa tremenda amnesia soffriamo ancora le conseguenze: la superficie vitata è infatti passata dai circa 4.000 ettari degli inizi dell’Ottocento agli attuali 400 colpendo quasi a morte un plurisecolare patrimonio di tradizioni e savoir-faire. Cosa ha provocato questo terribile “morbo di Alzheimer”? per capirne le cause dobbiamo, cari amici, ripercorrere assieme a ritroso la storia del commercio del vino valdostano.

Esportazione di vino valdostano

Prima di questo autentico tsunami il commercio del vino valdostano se la godeva: le esportazioni erano, anticamente, molto sviluppate interessando in prevalenza i vicini territori svizzeri romandi e francesi savoiardi. Questi commerci avvenivano lungo la rotta dei colli alpini che collegava il sud dell’Europa al nord esattamente come la via della seta collegava l’oriente all’occidente. I nostri crus si vendevano molto bene da “quelle parti” sin da tempi immemori. Pensate che una “charta” del re burgundo Sigismondo, segnala la cessione ad un monastero svizzero di numerosi vigneti valdostani già nel 515 d.C.  Ulteriori e numerose testimonianze ci informano di importanti scenari commerciali perdurati per ben mezzo millennio, tra il XIV ed il XIX secolo, con diversi cantoni elvetici, Vallese e Vaud, e regioni francesi, Savoia e Alta Savoia, oltre che verso il Piemonte. La viticoltura locale, grazie a questi commerci, beneficiò di una deflagrante esplosione produttiva: pensate che il castellano di Cly, tanto per farvi un esempio, nel 1376 assolda per la cura dei propri tenimenti viticoli 72 vendemmiatori, 25 muli per il trasporto dell’uva, 92 uomini per zappare le vigne, altrettanta manovalanza per la sfogliatura e 160 operai per la manutenzione ordinaria delle vigne e per ripiantare i vigneti più vecchi! Nessuna attuale azienda valdostana raggiunge anche solo la metà del personale di vigna di questo singolo castellano che, tra l’altro, nemmanco era importante…

Il grande gelo

In questo felice contesto commerciale è verso la fine del XVIII secolo d.C. che cala, sul vino “de Nohtra Téra”, la prima tremenda piaga che avrebbe scatenato la pausa ed il temporaneo declino di cui in premessa. Si trattava di una piaga con la quale nessuno poteva negoziare: il clima. Prima di comprendere cosa successe, vi prego di pazientare. Dovete, purtroppo, farvi una piccola infarinatura sul clima alpino attraverso i secoli. Da queste parti la “meteo” ne ha combinate, infatti, di tutti i colori. L’imponente massa delle Alpi costituisce un formidabile volano termico che ha un carattere tutto suo, esattamente come i nostri campagnard. Qui freddo e caldo si sono alternati attraverso i secoli in maniera molto più marcata rispetto ai territori vitati di pianura e collina. Se ripercorriamo secoli e millenni indietro vediamo che, dopo i grandi freddi verificatisi tra il 1400 a.C. ed il 300 a.C., il clima alpino diventò mite per ben sette secoli. I passi alpini locali divennero transitabili per tutto l’anno, attirando gli interessi dell’impero romano che invase la “Vallée” portando con sé la cultura mediterranea del vino. Tra il 400 d.C. ed il 750 d.C. il clima alpino si raffreddò nuovamente in maniera decisa. I passi ridiventarono transitabili solo in estate con conseguente abbandono del ruolo strategico della Vallée nei commerci. Tra il 750 d.C. e fino al 1500 d.C. il clima migliorò di nuovo: i valichi tornarono nuovamente transitabili per gran parte dell’anno aumentando il commercio di vino. Il clima peggiorò progressivamente a partire dal XVI secolo fino a registrare, attorno alla fine del XVIII secolo d.C., la più grave crisi climatica degli ultimi duemila anni con lunghi periodi di innevamento di quei passi che costituivano, per il commercio di vini valdostani, un ineludibile “collo di bottiglia”. I grandi commerci vinicoli, vincolati all’inevitabile rotta dei colli alpini, tramontarono improvvisamente poiché la neve perenne impedì, per gran parte dell’anno, il passaggio delle carovane. Con i mancati commerci venne meno la fonte di guadagno del sistema viticolo professionale valdostano e gran parte delle aziende professionali dichiarò bancarotta.

Altre criticità

Come se tutto questo disastro non fosse già bastato, sorsero in quel periodo ulteriori criticità che appesantirono il già compromesso quadro. Proverò a riassumervi queste ulteriori “piaghe d’Egitto” in salsa valdostana che portarono alla quasi estinzione del nostro mondo vitivinicolo. Vogliate scusarmi per l’elenco chilometrico ma lo ritengo necessario a farvi percepire l’entità dei danni subiti dal settore viticolo. Iniziamo…Nel 1851 la comparsa dell’oidio in Valle inaugurò una stagione epidemica durata quasi settant’anni in cui questo patogeno, assieme alle successive peronospora e fillossera, imperversò distruggendo migliaia di ettari di vigne. Undici anni dopo, nel 1861, la nascita dello stato italiano inaugurò una rigida politica doganale che precluse al vino valdostano il libero accesso ai suoi due principali mercati: Francia e Svizzera. La mancanza di sbocchi commerciali a nord si assommò all’apertura contestuale, a sud, della tratta ferroviaria Torino-Aosta che portò in Valle fiumi di vino del sud Italia a basso prezzo. Il contestuale arrivo in Svizzera Vallese, nel 1860, della ferrovia, permise l’importazione di vini rossi da territori alternativi alla “Vallée” a prezzi vantaggiosi compromettendo gli ultimi scampoli di commercio verso la Svizzera. La chiusura, nel 1861, dell’unico centro di sperimentazione viticola presente in Vallée: la “ferme agricole du Lachet” fece mancare la formazione delle nuove generazioni di “vignerons”. Contestualmente la qualità delle varietà viticole locali subì un tracollo. Numerose ottime varietà scomparirono dalla viticoltura valdostana sia per le nuove patologie sia per la scelta delle istituzioni di privilegiare pochissime varietà innestate per garantirne sufficiente diffusione. L’interazione di tutte queste criticità mise sul lastrico gli ultimi “vignerons” obbligandoli ad attingere a risorse finanziarie nelle sedi più inopportune. I tassi di prestito arrivarono a livelli di strozzinaggio con interessi attorno al 50 %. In una situazione già così compromessa arrivò la prima guerra mondiale ad assestare danni terribili all’esangue “terroir” valdostano. Superata la guerra, la progressiva apertura della Vallée verso altre opportunità imprenditoriali a carattere industriale tra cui, nel 1924, l’apertura delle “Acciaierie Cogne” tolse alla ruralità innumerevoli risorse umane. La diffusione di industrie nei vicini territori francesi e piemontesi diede poi nuova linfa ad un fenomeno diffuso: la massiccia emigrazione. I tentativi di reagire attraverso l’istituzione di esperienze cooperativistiche venne a fallire per mancanza di interesse e motivazione. Un’altra guerra mondiale, con tutto il suo carico di tragedie, calò di nuovo a colpire nuovamente la popolazione. Le cose non migliorarono arrivata la pace: l’urbanizzazione spinta delle migliori coste vitate esposte a sud trasformò e continua a trasformare i nostri migliori vigneti in cemento, asfalto e villette a schiera. Il risultato complessivo di questo massacro non lascia dubbi: alla fine del secondo conflitto mondiale non esiste più nessun viticoltore di professione ed il patrimonio vitato scende a 600 ettari (ora 400) contro gli antichi 4.000/5.000. Il residuo commercio di vino valdostano è al tracollo e del glorioso passato non rimane nemmeno consapevolezza e memoria storica nelle nuove generazioni.

La lenta ripresa

Nel dopoguerra la viticoltura locale passa due sofferte decadi solo per leccarsi le ferite e per ricordarsi di esistere. Nel ventennio successivo inizia la lenta, difficile risalita, dapprima attraverso le feste del vino, poi attraverso l’attività dell’Institut agricole régional, la creazione delle cooperative vitivinicole a cui seguirà, negli anni novanta, l’emergere delle attuali realtà private di eccellenza fino alla recentissima e auspicata nascita del Consorzio vini valdostani. Contestualmente qualcuno come Giorgio Vola, Giulio Moriondo, il sottoscritto e pochi altri fa ricerca storica tentando di “scuotere” vignerons locali e consumatori per rammentare loro che, dalle nostre parti, il Dio Bacco non solo non è passato di sfuggita ma, invece, ha costruito in duemila anni un’eccezionale cultura vitivinicola che articoli come questo, promossi e patrocinati dal Consorzio vini valdostani, contribuiscono a rendere manifesta.

Nel ringraziare chi ha voluto leggere fino in fondo questo articolo che evoca tempi certamente cupi ma altrettanto certamente superati, vi auguro buona giornata e vi ricordo, sperando che almeno voi non perdiate la memoria, che, parafrasando i Righeira, “l’estate sta arrivando” ed è doveroso munire il frigo bar di freschissimi vini bianchi valdostani…

Aosta 19 giugno 2023
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