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Vendemmia eroica a Donnas di Piantagrossa
Viticoltura Eroica

Gli antichi eroi del mondo del vino valdostano

Cari amici appassionati, in queste uggiose giornate autunnali che ben dispongono alla lettura, vi propongo di continuare il nostro viaggio mensile attraverso la bimillenaria storia della viticoltura locale.

Questo periodo di concorsi enologici autunnali è stato particolarmente prodigo per i nostri vignerons valdostani che, come avrete letto nei giornali, hanno ricevuto una messe di premi. La nostra produzione, nei cliché tipici dei rotocalchi enologici, viene etichettata come “eroica” quasi a pensare che i nostri campagnard assurgano ad eroi alpini incarnando i valori superiori della forza e della virtù.

Ma, fatti i dovuti complimenti ai nostri moderni vignerons, se davvero volete sapere dove si siano originati e meglio si siano incarnati questi valori bisogna fare un passo indietro e tornare a quel lontano periodo in cui quello che ora consideriamo eroico rappresentava, invece, la normalità del lavoro di tutti i giorni.

Abbandoniamo l’era dei trattori con le cabine riscaldate e, accompagnati dal sottoscritto in qualità di improvvisata guida turistica spazio-temporale, affittiamo una macchina del tempo e partiamo per un viaggio verso l’epoca d’oro degli eroi vignerons!

A titolo esemplificativo scelgo un solo periodo ed una sola zona: regolo la data del viaggio all’anno 1300 e mi sposto ad Arvier, negli antichissimi grand cru dell’Enfer e di Montaverain.

Se, usciti dalla macchina del tempo, pensate di imbattervi in poveri campagnard analfabeti ed incapaci di pensieri alti resterete decisamente delusi e ancor più imbarazzati quando li conoscerete. Non preoccupatevi però, siete in buona compagnia.

Come scrive il grande antropologo Annibale Salsa: “I cittadini alla fine del settecento, nell'ottocento, ancor di più ai primi del novecento, consideravano i montanari alla stregua di gente rozza, descolarizzata e sottosviluppata mentalmente. Ebbene la ricerca antropologica e quella storica hanno ribaltato recentemente il pesante stereotipo cittadino. Hanno infatti aperto la strada ad un salutare revisionismo, fondato e giustificato sull'accesso a fonti storiche, ai documenti notarili, alle testimonianze letterarie. L'immagine del montanaro rozzo delle alpi costituisce pertanto, soprattutto in relazione ad alcune regioni alpine di eccellenza, un vero e proprio falso storico”.

E’ in questo periodo che i vignerons d’Arvier, tra i padri fondatori della viticoltura valdostana, pensano e realizzano una delle più incredibili opere ingegneristiche della viticoltura valdostana.

Gli antichi vignerons, nel gran cru di Enfer ed in quello ora quasi abbandonato di Montaverain, disponevano, già all’epoca, di ben tre diversi rus (canali irrigui) ad esclusivo servizio delle preziose vigne. Ma per i loro piani di ampliamento del terroir viticolo l’acqua non bastava. Le poche acque provenienti dai torrenti dell’adret erano state tutte captate ed il domaine vitato si trovava in un anfiteatro in cui l’acqua della Dora era troppo a valle per pensare di essere captata.

Non solo eroi

Fu allora, nel lontano anno 1300, che questi vigneron eroici per risolvere il problema immaginarono un progetto incredibile, titanico.

I campagnard immaginarono di andare a prelevare le acqua dal remoto lato opposto della vallata, creando un nuovo canale nel ricco ma lontano torrente che scorreva dalla Valgrisenche. Il torrente, però, cedeva le sue acque alla Dora non solo dalla parte opposta della valle rispetto ai crus vitati ma anche leggermente a valle. Oltretutto bisognava, in qualche modo, fare attraversare alle acque il corso impetuoso della Dora. Occorreva quindi, per beneficiare delle acque, non solo fare qualcosa di totalmente nuovo e grande ma anche di assolutamente visionario.

I vignerons, aiutati da figure tecniche locali del settore acquedottistico, i cosiddetti “acqueductor”, immaginarono di realizzare due immensi piloni, in patois “pile”, costruiti in muratura di pietrame e malta di calcestruzzo di dimensioni enormi in modo da raggiungere l’altimetria necessaria non solo a superare la Dora ma, anche, a garantire il deflusso delle acque verso la parte alta del terroir vitato.

Un’opera così immane e innovativa avrebbe necessitato dello sforzo congiunto di centinaia di campagnard e di maestranze qualificate. Fortunatamente l'organizzazione comunitaria del lavoro era, all’epoca, uno dei tratti salienti ed identitari della cultura identitaria alpina. Permangono non a caso ancor oggi in Vallée tracce dirette di questo antico retaggio identitario nella pratica delle corvées ossia la pulizia comunitaria dei ruscelli a conferma dell'evidenza che la montagna ha saputo resistere meglio della pianura alle nuove dinamiche sociali e culturali.

I nostri eroici vignerons, dapprima derivarono le acque della dora di Valgrisanche edificando ex novo un lungo ru battezzato Chinaley, e, poi, non esitarono a riunire l’immensa manodopera e le professionalità tecniche necessarie a far attraversare al ru la valle centrale della Dora facendolo passare, udite udite, sopra alla medesima!

A tal fine i nostri campagnard realizzarono due immensi piloni, in patois “pile”, costruiti in muratura di pietrame e malta di calcestruzzo ed ancor oggi visibili. Per darvi un’idea dello sforzo ingegneristico sappiate che uno è alto ben 15 metri con una base di 2,7 x 3,7 m., l'altro, poco meno imponente, è alto 12 metri. Sospeso a sbalzo tra le due pile, distanti tra loro circa 17 metri, fu realizzato un canale composto da cassoni in legno costruiti in legno di larice, in patois “artse”, che scorreva a sbalzo attraversando tutta la larghezza della Dora baltea .

Le artse “pensili” seppero garantire per ben sei secoli l'approvvigionamento idrico del “cru perdu” di Montaverain confermando, oltre al valore intrinseco dei vigneti, anche quello del raffinato sistema di approvvigionamento idrico.

Il lavoro di manutenzione di questi cassoni di legno, in un terroir chiamato “Enfer”, rendeva onore a tale nome: gli addetti alla manutenzione operavano a quasi 19 metri di altezza sopra le acque gelide della Dora Baltea su precari tavolati di larice percorrendo a sbalzo una lunghezza pari a ben venti metri: un lavoro davvero improbo e pericoloso.

Conclusioni: viticoltura eroica o, meglio, viticoltura alpina di eccellenza?

La meritata fama dei costruttori di rus valdostani all’epoca superò ampiamente i confini della Vallée. Poco dopo la costruzione delle “pile” di Montaverain, nel 1318, fu lo stesso Conte di Savoia, colpito dalla grande perizia dei valdotèn, a chiamare dalla Vallée un “acqueductor”, Jean de Chatillon, per realizzare le complesse opere idrauliche a servizio del suo castello di Rivoli. A tal proposito mi preme sottolineare come la nostra viticoltura andasse ben al di là del tanto rimarcato ma piuttosto riduttivo cliché di viticoltura “eroica”.

La nostra vitivinicoltura non era solo “coraggiosa” ma era, anche e soprattutto, una grande cultura vitivinicola alpina, dalle elevate e specifiche competenze tecniche di cui dovremmo riappropriarci per proporre un nostro pensiero autonomo contro il pensiero dominante delle viticolture di pianura e collina. Mi piace citare ancora una volta il grande Annibale Salsa: “si scopre così che-paradossalmente- la cultura alpina è stata, per certi versi, una cultura elitaria, elemento di cui dovranno prendere coscienza gli abitanti delle Alpi, per proporre la propria identità rivisitando il proprio passato non in modo passatistico, restituendo alle Alpi il ruolo di nuovo baricentro culturale, non più periferia della pianura o della città”.

Nell’auspicio di poter tornare a giocare un più che meritato ruolo elitario nella cultura e nella (viti)coltura alpina, vi saluto e vi ringrazio, cari amici, per aver saputo non meno “eroicamente” arrivare in fondo a questo ennesimo lungo articolo!

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Valle d'Aosta 10 novembre 2023
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